Penso, dunque non scrivo

Guerra e pace è un romanzo di troppe pagine. Lo lessi a quindici o sedici anni, senza capirci molto e annoiandomi a morte. Avevo poi una versione del libro piuttosto vecchia e trascurata, divisa in almeno sette volumi e con le pagine tutte ingiallite dal tempo. Per lo meno aveva la traduzione degli interminabili passaggi in francese che sorvolavo con accurata disinvoltura. Insomma, per quanto io abbia sempre amato la letteratura russa e lo stesso Tolstoj, Guerra e pace non l’ho proprio mai digerito.

In una cosa la mia mente è stata però in continuazione stimolata durante la lettura del romanzo. Per quanto sia una cosa piuttosto ingenua da affermare, mi sono spesso chiesto come abbiamo fatto gli scrittori di una volta a scrivere tutto quanto a mano. Soltanto l’idea di prendere Guerra e pace e ricopiarlo a mano mi rende perplesso, figuriamoci poi scriverlo da zero. Avrà usato la stenografia o qualche altro stratagemma? Forse dovrei esplorare.

La stenografia l’ho scoperta leggendo Dracula di Bram Stocker e prima di allora non ne avevo onestamente mai sentito parlare. C’era Van Helsing (penso fosse lui? l’ho letto veramente tanti anni fa) che si appuntava sul suo diario gli avvenimenti della giornata stenografando. Fu per me una scoperta sensazionale: per me, che la scrittura a mano ha sempre rallentato e addirittura tolto lo stimolo della scrittura. Mi spiego meglio.

Ci sono stati periodi in cui una lettera, o più propriamente la forma di una lettera, potevano tormentarmi anche per mesi. La lettera in questione poteva darmi fastidio per svariati motivi. Poteva essere una erre stranamente asimmetrica, una gi incompleta, una effe troppo aperta e via dicendo. Insomma, il tormento poteva andare avanti per tantissimo tempo, finché la lettera non si “autoriparava”, cioè non ritornava ad essere ai miei occhi esteticamente appagante. Di solito ciò coincideva con qualche momento importante nella mia esistenza. La mia spiegazione laica e probabilmente sbagliata è che le lettere ribelli riflettessero un certo stato d’animo o una paranoia esistenziale: quando superavo il problema, la lettera tornava ad essere accettabile.

Il che a volte è arrivato a livelli poco rassicuranti: ad esempio, più volte mi sono trovato sofferente durante un esame, bloccato per via di una certa lettera che non mi lasciava in pace. E più volte sono stato quasi invogliato a lasciare il foglio in bianco tanta era la mia disperazione. Come quando vai a dormire e c’è il ticchettio di un orologio mai sentito fino a quel momento.

La “passione” per la calligrafia è sempre andata di pari passo con il mio interesse per le penne, soprattutto quelle stilografiche. Una delle prime penne veramente belle l’ho avuta partecipando a un concorso letterario alle medie. Sono arrivato terzo su probabilmente altrettanti concorrenti, ma comunque come premio ho ricevuto una penna. Ammetto, però, che la penna era piuttosto effeminata (sarà che non si aspettavano di avere concorrenti maschi?).

Comunque, qualsiasi fosse la ragione di fondo, dalla prima media in poi non ho fatto che cambiare scritture, evidente sintomo di una perfetta stabilità emotiva e psicologica. Le ho fatte tutte: verso destra, verso sinistra, a lettere piccole, grandi, sottili, rotonde, alte, lunghe, spigolose, incomplete, incomprensibili, tutte uguali…

Ecco, avevo quindici o sedici anni e leggevo Guerra e pace. E pensavo: povero l’uomo che con i miei stessi disagi si ritrovasse a scrivere quel libro, tutto a mano.